Archivio
È come Bach suonato sul bicchiere..
*
– Progetto un mondo –
.
Progetto un mondo, nuova edizione,
nuova edizione, riveduta,
per gli idioti, ché ridano,
per i malinconici, ché piangano,
per i calvi, ché si pettinino,
per i sordi, ché gli parlino.
.
Ecco un capitolo:
La lingua di Animali e Piante,
dove per ogni specie
c’è il vocabolario adatto.
Anche un semplice buongiorno
scambiato con un pesce,
àncora alla vita
te, il pesce, chiunque.
.
Quell’improvvisazione di foresta,
da tanto presentita, d’un tratto
nelle parole manifesta!
Quell’epica di gufi!
Quegli aforismi di riccio,
composti quando
siamo convinti
che stia solo dormendo!
.
Il Tempo (capitolo secondo)
ha il diritto di intromettersi
in tutto, bene o male che sia.
Tuttavia – lui che sgretola montagne,
sposta oceani
ed è presente al moto delle stelle,
non avrà il minimo potere
sugli amanti, perchè troppo nudi,
troppo avviniti, col cuore in gola
arruffato come un passero.
.
La vecchiaia è solo la morale
a fronte d’una vita criminosa.
Ah, dunque sono giovani tutti!
La Sofferenza (capitolo terzo)
non insulta il corpo.
La morte
ti coglie nel tuo letto.
.
E sognerai
che non occorre affato respirare,
che il silenzio senza respiro
è una muscia passabile,
sei piccolo come una scinitlla
e ti spegni al ritmo di quella.
.
Una morte solo così. Hai sentito
più dolore tenendo in mano una rosa
e provato maggiore sgomento
per un petalo sul pavimento.
.
Un mondo solo così. Solo così
vivere. E morire solo quel tanto.
E tutto il resto eccolo qui –
è come Bach suonato sul bicchiere
per un istante.
.
– W. Szymborska –
(Kórnik, 2 luglio 1923 – Cracovia, 1° febbraio 2012)
*
..dall’immobile viaggio (‘Diceria dell’untore’)
*
Ma chi potrà scordarsi dei compagni di prigionia, del fuoco che li spingeva, nelle prime ore dell’alba, in pigiama com’erano, a scendere in giardino per piangere finalmente da soli, con la guancia premuta contro la spalliera di una panchina; chi potrà levarsi dalla mente le loro facce malrasate, mentre le coglie e disorienta l’indorarsi fulmineo del mondo, al di là del muro di cinta?
Bastava talvolta, tra sonno e veglia, un fischio di treno addolcito dalla distanza, oppure il cigolìo dei carri di zolfo in fila per la collina, e si balzava col cuore in tumulto, seduti sul letto, a origliare le invidiate informazioni e le leggende di quella stella infedele in cui s’era trasformata la terra. Che cosa racconta un treno, un carro che va, fra bivacchi e lune sull’aia, lungo profumi d’aranci e paesi, in una notte d’estate? Niente, eppure so di occhi sbarrati nel buio, che non avevano altra vacanza se non di sorprendere, al séguito di quelle ruote, qualche guizzo di vita durante la via: un vecchio che prende il fresco, due teste che si parlano sotto il lume della cena…
Si tornava dall’immobile viaggio più lieti, più tristi, chi può dirlo, e tuttavia non delusi del nostro bottino di nuvole, l’unico che la sorte non aveva facoltà di vietarci.
[…]
(G. Bufalino, Diceria dell’untore)
*
L’uomo e il mare (O lottatori eterni, o implacabili fratelli)
*
L’UOMO E IL MARE
Sempre il mare, uomo libero, amerai!
perché il mare è il tuo specchio; tu contempli
nell’infinito svolgersi dell’onda
l’anima tua, e un abisso è il tuo spirito
non meno amaro. Godi nel tuffarti
in seno alla tua immagine; l’abbracci
con gli occhi e con le braccia, e a volte il cuore
si distrae dal suo suono al suon di questo
selvaggio ed indomabile lamento.
Discreti e tenebrosi ambedue siete:
uomo, nessuno ha mai sondato il fondo
dei tuoi abissi, nessuno ha conosciuto,
mare, le tue più intime ricchezze,
tanto gelosi siete d’ogni vostro
segreto. Ma da secoli infiniti
senza rimorso né pietà lottate
fra voi, talmente grande è il vostro amore
per la strage e la morte, o lottatori
eterni, o implacabili fratelli!
(C. Baudelaire)
*
Il fiore blu
Di polvere e tempo e sogno e agonie
*
Scacchi
I
Nell’angolo severo i giocatori
muovono i lenti pezzi. La scacchiera
li avvince fino all’alba al duro campo
dove si stanno odiando due colori.
Su di esso irradiano magici rigori
le forme: torre omerica, leggero
cavallo, armata regina, re estremo,
obliquo alfiere e pedoni aggressori.
Quando i giocatori se ne saranno andati,
quando il tempo li avrà consumati,
certo non sarà concluso il rito.
Nell’Oriente si accese questa guerra
che oggi ha il mondo intero per teatro.
Come l’altro, questo gioco è infinito.
II
Tenue re, sghembo alfiere, indomita
regina, torre diritta e pedone scaltro
sopra il nero e il bianco del tracciato
cercano e combattono la loro lotta armata.
Non sanno che la mano designata
del giocatore comanda il loro fato,
non sanno che un rigore adamantino
regge il loro arbitrio e il loro viaggio.
Ma il giocatore è anch’esso prigioniero
(Omar lo dice) di un’altra scacchiera
fatta di nere notti e bianchi giorni.
Dio muove il giocatore, e questi, il pezzo.
Quale dio dietro Dio dà inizio alla trama
di polvere e tempo e sogno e agonie?
(J. L. Borges)
*
Sognaci, Dio del nostro sogno!
*
La vita è sogno!
Sarà forse sogno anch’esso, Dio mio, questo Tuo Universo, del quale Tu sei la Coscienza eterna e infinita? Sarà un Tuo sogno? E non può essere che Tu ci stia ora sognando? Saremo sogno, un sogno Tuo, noi sognatori della vita? E se così fosse, che mai sarà dell’Universo tutto; che sarà di noi; che sarà di me, quando Tu, Dio della mia vita, Ti desterai?
Sognaci, Signore!
E non avverrà forse che Tu Ti desti per i buoni, proprio quando essi, nel transito della morte, si destano dal sogno della vita? Possiamo forse noi, poveri sogni sognatori, sognare quel che possa essere la veglia dell’uomo nell’eterna Tua veglia, Dio nostro? Non sarà la bontà uno splendore di veglia nelle oscurità del sonno? Meglio che indagare sul Tuo e sul nostro sogno, scrutando l’Universo e la vita, meglio mille volte fare il bene, …ché non si perde il far bene, neanche in sogno. Meglio che investigare se son mulini o giganti quelli che ci appaiono paurosi e malvagi, è seguire la voce del cuore e assaltarli, ché ogni generoso slancio trascende il sogno della vita.
Dalle nostre azioni e non dalle nostre contemplazioni trarremo saggezza.
Sognaci, Dio del nostro sogno.
(M. de Unamuno, Vita di don Chisciotte e Sancio Panza, LXXIV)
*
Disiecta (Beckett e i Van Velde) – III
*
[…]
D. – Sarebbe troppo chiederle di delineare ancora una volta, nel modo più semplice possibile, la situazione e l’azione che lei ritiene proprie di [Bram] van Velde?
B. – La situazione è quella di chi è disorientato, non può agire, di fatto non può dipingere, essendo obbligato a dipingere. L’azione è quella di chi, disorientato, incapace di agire, agisce, di fatto dipinge, essendo obbligato a dipingere.
D. – Perché obbligato a dipingere?
B. – Non lo so.
D. – Perché è disorientato nel dipingere?
B. – Perché non c’è nulla da dipingere e nulla con cui dipingere.
D. – E il risultato, secondo lei, è un’arte di un nuovo genere?
B. – Tra quelli che chiamiamo grandi artisti non mi viene in mente nessuno il cui interesse non fosse principalmente rivolto alle proprie possibilità espressive, quelle del proprio mezzo, dell’umanità. Il presupposto implicito di ogni genere di pittura è che il regno dell’artefice è il regno del fattibile. Il molto da esprimere, il poco da esprimere, l’abilità di esprimere molto, l’abilità di esprimere poco, si fondono nella comune ansietà di esprimere il più possibile, o nel modo più veritiero possibile, o il meglio che sia possibile, al meglio delle proprie capacità. Che cosa…
D. – Un momento. Intende dire che la pittura di van Velde è inespressiva?
B. – (Due settimane dopo). Sì.
D. – Si rende conto dell’assurdità di ciò che sta dicendo?
B. – Spero di sì.
D. – Ciò che lei dice può essere riassunto così: la forma di espressione nota come pittura, dato che per oscure ragioni siamo obbligati a parlare di pittura, ha dovuto attendere van Velde per sbarazzarsi del malinteso in base al quale ha operato così a lungo e così mirabilmente, ovverosia che la sua funzione fosse di esprimere, per mezzo della pittura.
B. – Altri hanno ritenuto che l’arte non sia necessariamente espressione. Ma i numerosi tentativi fatti per rendere la pittura indipendente dalla sua occasione sono riusciti solo ad ampliare il suo repertorio. Io dico che van Velde è il primo la cui pittura sia orbata, priva se preferisce, di occasione in ogni forma e figura, tanto ideale quanto materiale, e il primo le cui mani non sono state immobilizzate dalla certezza che l’espressione è un atto impossibile.
[…]
B. – […] La storia della pittura, ed eccoci di nuovo al punto, è la storia dei suoi tentativi di sfuggire al suo senso del fallimento, mediante rapporti più autentici, più ampi, meno esclusivi, tra chi rappresenta e ciò che viene rappresentato, in una specie di tropismo verso una luce sulla cui natura le opinioni più mediate continuano a cambiare, e con una specie di terrore pitagorico, come se la razionalità del p greco fosse un’offesa contro la divinità, per non parlare della sua creatura. La mia tesi, dato che seggo sul banco degli imputati, è che van Velde è il primo a desistere da questo automatismo estetizzato, il primo a sottomettersi completamente alla incoercibile assenza di rapporto, in assenza dei termini o, se preferisce, in presenza di termini non disponibili, il primo a riconoscere che essere un artista significa fallire, come nessun altro osa fallire, che il fallimento è il suo mondo e ciò che gli impedisce di disertare, è arte e tecnica, la sua economia domestica, il suo modo di vivere.
No, no, mi conceda di finire.
So che ora per portare a una conclusione accettabile anche questa orribile storia, occorre fare di questa sottomissione, di questa fedeltà al fallimento, una nuova occasione, un nuovo termine di rapporto, e dell’atto che egli compie, incapace d’agire, obbligato ad agire, fare un atto espressivo, anche se espressivo solo dell’atto stesso, della sua impossibilità, del suo obbligo.
[…]
(S. Beckett, Disiecta)
*