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Disiecta (Beckett e i Van Velde) – III

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[…]

D. – Sarebbe troppo chiederle di delineare ancora una volta, nel modo più semplice possibile, la situazione e l’azione che lei ritiene proprie di [Bram] van Velde?

B. – La situazione è quella di chi è disorientato, non può agire, di fatto non può dipingere, essendo obbligato a dipingere. L’azione è quella di chi, disorientato, incapace di agire, agisce, di fatto dipinge, essendo obbligato a dipingere.

D. – Perché obbligato a dipingere?

B. – Non lo so.

D. – Perché è disorientato nel dipingere?

B. – Perché non c’è nulla da dipingere e nulla con cui dipingere.

D. – E il risultato, secondo lei, è un’arte di un nuovo genere?

B. – Tra quelli che chiamiamo grandi artisti non mi viene in mente nessuno il cui interesse non fosse principalmente rivolto alle proprie possibilità espressive, quelle del proprio mezzo, dell’umanità. Il presupposto implicito di ogni genere di pittura è che il regno dell’artefice è il regno del fattibile. Il molto da esprimere, il poco da esprimere, l’abilità di esprimere molto, l’abilità di esprimere poco, si fondono nella comune ansietà di esprimere il più possibile, o nel modo più veritiero possibile, o il meglio che sia possibile, al meglio delle proprie capacità. Che cosa…

D. – Un momento. Intende dire che la pittura di van Velde è inespressiva?

B. – (Due settimane dopo). Sì.

D. – Si rende conto dell’assurdità di ciò che sta dicendo?

B. – Spero di sì.

D. – Ciò che lei dice può essere riassunto così: la forma di espressione nota come pittura, dato che per oscure ragioni siamo obbligati a parlare di pittura, ha dovuto attendere van Velde per sbarazzarsi del malinteso in base al quale ha operato così a lungo e così mirabilmente, ovverosia che la sua funzione fosse di esprimere, per mezzo della pittura.

B. – Altri hanno ritenuto che l’arte non sia necessariamente espressione. Ma i numerosi tentativi fatti per rendere la pittura indipendente dalla sua occasione sono riusciti solo ad ampliare il suo repertorio. Io dico che van Velde è il primo la cui pittura sia orbata, priva se preferisce, di occasione in ogni forma e figura, tanto ideale quanto materiale, e il primo le cui mani non sono state immobilizzate dalla certezza che l’espressione è un atto impossibile.

[…]

B. – […] La storia della pittura, ed eccoci di nuovo al punto, è la storia dei suoi tentativi di sfuggire al suo senso del fallimento, mediante rapporti più autentici, più ampi, meno esclusivi, tra chi rappresenta e ciò che viene rappresentato, in una specie di tropismo verso una luce sulla cui natura le opinioni più mediate continuano a cambiare, e con una specie di terrore pitagorico, come se la razionalità del p greco fosse un’offesa contro la divinità, per non parlare della sua creatura. La mia tesi, dato che seggo sul banco degli imputati, è che van Velde è il primo a desistere da questo automatismo estetizzato, il primo a sottomettersi completamente alla incoercibile assenza di rapporto, in assenza dei termini o, se preferisce, in presenza di termini non disponibili, il primo a riconoscere che essere un artista significa fallire, come nessun altro osa fallire, che il fallimento è il suo mondo e ciò che gli impedisce di disertare, è arte e tecnica, la sua economia domestica, il suo modo di vivere.

No, no, mi conceda di finire.

So che ora per portare a una conclusione accettabile anche questa orribile storia, occorre fare di questa sottomissione, di questa fedeltà al fallimento, una nuova occasione, un nuovo termine di rapporto, e dell’atto che egli compie, incapace d’agire, obbligato ad agire, fare un atto espressivo, anche se espressivo solo dell’atto stesso, della sua impossibilità, del suo obbligo.

[…]

(S. Beckett, Disiecta)

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