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Posts Tagged ‘Scultura’

L’arte del levare (Non smettere di scolpire la tua propria statua)

23 novembre 2012 10 commenti

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«Ritorna in te stesso e guarda:

se non ti vedi ancora bello, comportati come l’autore di una statua che debba risultare bella:

quegli toglie, raschia, leviga, ripulisce, fino a far apparire nella statua un bel viso.

Anche tu togli il superfluo, raddrizza ciò che è storto,

a furia di ripulire quanto è oscuro, fallo brillare

e non smettere di ‘scolpire’ la tua propria ‘statua’

fino a che riluca per te il divino splendore della virtù,

fino a vedere la “Saggezza, alta sul suo sacro soglio” […]

Sei divenuto tale? Hai visto questo? […]

Se vedi di essere diventato così, allora, divenuto tu stesso una visione,

sempre più fiducioso in te stesso, già intento a salire verso l’alto pur essendo ancora su questa terra,

senza più bisogno di guida, figgi intensamente gli occhi e guarda!»

– Plotino –

(Enneadi I 6, 9, 7-16; 22-24)

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Di polvere e tempo e sogno e agonie

13 luglio 2010 2 commenti

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Scacchi


I

Nell’angolo severo i giocatori
muovono i lenti pezzi. La scacchiera
li avvince fino all’alba al duro campo
dove si stanno odiando due colori.

Su di esso irradiano magici rigori
le forme: torre omerica, leggero
cavallo, armata regina, re estremo,
obliquo alfiere e pedoni aggressori.

Quando i giocatori se ne saranno andati,
quando il tempo li avrà consumati,
certo non sarà concluso il rito.

Nell’Oriente si accese questa guerra
che oggi ha il mondo intero per teatro.
Come l’altro, questo gioco è infinito.


II

Tenue re, sghembo alfiere, indomita
regina, torre diritta e pedone scaltro
sopra il nero e il bianco del tracciato
cercano e combattono la loro lotta armata.

Non sanno che la mano designata
del giocatore comanda il loro fato,
non sanno che un rigore adamantino
regge il loro arbitrio e il loro viaggio.

Ma il giocatore è anch’esso prigioniero
(Omar lo dice) di un’altra scacchiera
fatta di nere notti e bianchi giorni.

Dio muove il giocatore, e questi, il pezzo.
Quale dio dietro Dio dà inizio alla trama
di polvere e tempo e sogno e agonie?

(J. L. Borges)

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Sogno ad occhi aperti (Correspondances)

9 aprile 2010 50 commenti

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G. Sollima, Sogno ad occhi aperti – Parte I (Terra-Aria)

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– Corrispondenze –


È un tempio la Natura ove viventi

pilastri a volte confuse parole

mandano fuori; la attraversa l’uomo

tra foreste di simboli dagli occhi

familiari. I profumi e i colori

e i suoni si rispondono come echi

lunghi che di lontano si confondono

in unità profonda e tenebrosa,

vasta come la notte ed il chiarore.

Esistono profumi freschi come

carni di bimbo, dolci come degli òboi,

e verdi come praterie; e degli altri

corrotti, ricchi e trionfanti, che hanno

l’espansione propria alle infinite

cose, come l’incenso, l’ambra, il muschio,

il benzoino, e cantano dei sensi

e dell’anima i lunghi rapimenti.

(C. Baudelaire)

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G. Sollima, Sogno ad occhi aperti – Parte II

L’uomo che ascoltava le pietre

13 marzo 2010 5 commenti

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Sono di nuovo dal mio amico paralitico. Sorride in quel suo modo tutto particolare:

«Non mi ha ancora raccontato nulla dell’Italia».

«Sarebbe a dire che dovrei al più presto recuperare il tempo perduto?».

Ewald annuisce e già socchiude gli occhi, pronto all’ascolto. Allora comincio:

«Ciò che noi percepiamo come primavera, Dio lo vede scorrere sulla terra come un sorriso fugace. La terra sembra ricordarsi di qualcosa di cui narrerà poi a tutti durante l’estate, fino a quando si farà più saggia, durante il grande silenzio autunnale con il quale si confida ai solitari. Tutte le primavere che lei e io abbiamo vissuto, prese tutte insieme, non bastano a colmare un solo istante del tempo di Dio. La primavera di cui Dio deve accorgersi non può rimanere solo sugli alberi e sui prati, deve, in qualche modo, diventare presente nel cuore degli uomini, perché, per così dire, non fluisce nel tempo, ma piuttosto dentro l’eternità e alla presenza di Dio.

Quando questo accadde una volta, lo sguardo di Dio con le sue ali scure dovette rimanere sospeso sopra Italia. Al di sotto, la terra era chiara, il tempo risplendeva come oro, ma di traverso sulla penisola si allungava l’ombra scura e pesante di un uomo robusto. Poco distante, davanti a lui, era l’ombra delle sue mani creatrici, inquiete, vibranti: ora protese su Pisa, ora su Napoli, ora fluttuanti sopra l’incerto moto del mare. Dio non riusciva a distogliere il suo sguardo da queste mani che dapprima gli erano apparse giunte, in gesto di preghiera… ma la preghiera che ne scaturiva le spingeva lontano l’una dall’altra. Si fece silenzio nei cieli. Tutti i santi seguivano con lo sguardo Dio e come lui osservavano l’ombra che avvolgeva mezza Italia, mentre il canto degli angeli rimaneva immobile sui loro volti. Le stelle tremavano temendo di aver mancato in qualcosa e attendevano, umilmente, i rimproveri di Dio. Ma non accadde nulla di simile. Sopra l’Italia i cieli si erano dischiusi in tutta la loro vastità, così che a Roma Raffaello era caduto in ginocchio, mentre su una nuvola il beato Fra’ Angelico da Fiesole ne gioiva. Molte preghiere si levarono in quell’ora dalla terra. Ma Dio ne riconobbe una soltanto: la forza di Michelangelo saliva sino a lui come profumo di vigneti. Ed egli lasciò che essa riempisse tutti i suoi pensieri. Si chinò ancor più verso il basso, trovò l’uomo che stava creando, guardò oltre le sue spalle verso le mani che stavano ascoltando la pietra e si spaventò. Vi era forse un’anima anche nelle pietre? Perché quell’uomo spiava la voce delle pietre? Ed ecco che le mani gli si destarono e iniziarono a scavare nella pietra come fosse stata una tomba dentro alla quale tremola una debole voce morente:

“Michelangelo” gridò Dio in grande apprensione “chi c’è nella pietra?”.

Michelangelo tese l’orecchio, le sue mani tremarono. Poi rispose con voce cupa:

“Tu, mio Dio, chi altri? Ma io non posso giungere sino a te”

E allora Dio sentì che era anche dentro la pietra e tutto gli apparve pauroso e angusto. Il cielo intero era solo una pietra e lui vi era rinchiuso dentro e sperava nelle mani di Michelangelo che lo liberassero e le sentì giungere, ma erano ancora lontane. Tuttavia il maestro era nuovamente chino sulla sua opera. E continuava a pensare:

“Sei solo un piccolo blocco, e un altro farebbe fatica a scoprire una figura umana dentro di te. Ma io qui sento una spalla: è quella di Giuseppe d’Arimatea, e qui Maria si china, sento le sue mani tremanti che sostengono Gesù, nostro Signore, appena spirato sulla croce. Se in questo piccolo blocco di marmo trovano spazio queste tre figure, perché non potrei trarre da una rupe un’intera stirpe dormiente?”

E con possenti colpi liberò le tre figure della Pietà, ma da quei volti non tolse del tutto i veli di pietra, quasi temendo che la loro profonda tristezza potesse avvolgere le sue mani, paralizzandole. Così si rifugiò in un’altra pietra. Ma ogni volta rinunciava a dare a una fronte la piena chiarezza, a una spalla la più pura rotondità, e quando creava una figura femminile non posava il sorriso definitivo sulla sua bocca, affinché non ne venisse svelata completamente la bellezza.

A quel tempo stava progettando il monumento funebre a Giulio della Rovere. Voleva elevare una montagna sopra la tomba del Pontefice di ferro e scolpirvi sopra un’intera stirpe che la popolasse. Tutto preso da piani ancora oscuri si recò alla sua cava di marmo. Il pendio si snodava lungo un povero villaggio. Incorniciate da olivi e da pietrame antico, le lastre staccate di recente apparivano come un ampio volto pallido sotto una chioma che andava imbiancandosi. A lungo Michelangelo rimase a guardare la fronte di un viso ancora nascosta dal marmo. All’improvviso scorse, lì sotto, due giganteschi occhi di pietra che lo osservavano. E sotto l’influsso di quello sguardo Michelangelo sentì la sua figura crescere sempre di più. Ora si elevò anche lui sopra la terra, ed era come se da un’eternità stesse – da fratello – di fronte a quella montagna. La vallata arretrò dinanzi a lui come davanti a uno che si stia inerpicando, le capanne si strinsero le une alle altre come  greggi, e più vicino e familiare apparve allora il volto di roccia sotto bianchi veli di pietra. Aveva un’espressione di attesa, immobile e tuttavia sul punto di muoversi. Michelangelo pensò:

“Non ti si può frantumare, tu sei una cosa sola”.

Poi alzò la voce:

“A te voglio dare una forma, tu sei la mia opera”.

E si volse per tornare a Firenze. Vide una stella e il campanile del Duomo. E ai suoi piedi si era fatta sera.

Ad un tratto, a Porta Romana, esitò. Le due file di case si protendevano verso di lui simili a due braccia e già lo avevano catturato, traendolo dentro la città. E le viuzze si facevano sempre più strette e colme di crepuscolo, e quando entrò nella sua casa seppe di essere chiuso fra mani buie alle quali non poteva sottrarsi. Si rifugiò nella sala e poi nella piccola stanza, lunga appena due passi, nella quale era solito scrivere. Le pareti gli si appoggiarono addosso ed era come se lottassero con le sue dimensioni smisurate e lo ricacciassero nella vecchia, stretta figura. Ed egli lo accettò. Si piegò sulle ginocchia e si lasciò plasmare da loro. Sentì dietro di sé un’umiltà mai provata sino a quell’istante ed ebbe persino il desiderio di essere in qualche modo piccolo. E giunse una voce:

“Michelangelo, chi c’è in te?”.

E l’uomo nella minuscola stanza posò la fronte pesante sulle mani e disse sommessamente:

“Tu, mio Dio, chi altri?”.

Ed ecco farsi spazio intorno a Dio che risollevò liberamente il volto proteso sopra l’Italia e volse lo sguardo intorno: c’erano i santi con mantelli e mitrie e gli angeli incedevano fra le stelle assetate con i loro canti simili a brocche colme di lucente acqua sorgiva, e non vi era limite al cielo».


Il mio amico paralitico sollevò gli occhi e lasciò che le nubi della sera li conducessero con sé oltre il cielo.

«Dio è dunque

Chiese. Tacqui. Poi mi chinai su di lui:

«Ewald, siamo noi forse qua?».

E ci tenemmo affettuosamente per mano.

(R. M. Rilke, Storie del buon Dio)

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Madre

7 febbraio 2010 1 commento

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– La madre –

E il cuore quando d’un ultimo battito
Avrà fatto cadere il muro d’ombra,
Per condurmi, Madre, sino al Signore,
Come una volta mi darai la mano.

In ginocchio, decisa,
Sarai una statua davanti all’Eterno,
Come già ti vedeva
Quando eri ancora in vita.

Alzerai tremante le vecchie braccia,
Come quando spirasti
Dicendo: Mio Dio, eccomi.

E solo quando m’avrà perdonato,
Ti verrà desiderio di guardarmi.

Ricorderai d’avermi atteso tanto,
E avrai negli occhi un rapido sospiro.

(G. Ungaretti)

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Le passanti

7 febbraio 2010 2 commenti

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– A una passante –


Urlava attorno a me la via assordante.

Lunga, sottile, in lutto, maestoso

dolore, alto agitando della gonna

il pizzo e l’orlo con fastosa mano,

una donna passò agilmente, nobile

con la sua gamba statuaria. Ed io,

come un folle, bevevo nel suo occhio

– livido cielo nel cui fondo romba

l’imminente uragano – la dolcezza

affascinante e il piacere che uccide.

Un lampo… poi la notte! – O fuggitiva

beltà, per il cui sguardo all’improvviso

sono rinato, non potrò vederti

che nell’eternità? In un altro luogo,

bel lontano di qui, e troppo tardi,

mai, forse! Perché ignoro dove fuggi,

e tu non sai dove io vado, o te

che avrei amata, o te che lo sapevi!

(C. Baudelaire)

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– Les passantes / Le passanti –

Je veux dédier ce poème
A toutes les femmes qu’on aime
Pendant quelques instants secrets,
A celles qu’on connait à peine,
Qu’un destin différent entraîne
Et qu’on ne retrouve jamais.
Io dedico questa canzone
ad ogni donna pensata come amore
in un attimo di libertà
a quella conosciuta appena
non c’era tempo e valeva la pena
di perderci un secolo in più.
A celle qu’on voit apparaître
Une seconde à sa fenêtre,
Et qui, preste, s’évanouit,
Mais dont la svelte silhouette
Est si gracieuse et fluette
Qu’on en demeure épanoui.
A quella quasi da immaginare
tanto di fretta l’hai vista passare
dal balcone a un segreto più in là
e ti piace ricordarne il sorriso
che non ti ha fatto e che tu le hai deciso
in un vuoto di felicità.
A la compagne de voyage
Dont les yeux, charmant paysage,
Font paraître court le chemin;
Qu’on est seul, peut-être, à comprendre,
Et qu’on laisse pourtant descendre
Sans avoir effleuré la main.
Alla compagna di viaggio
i suoi occhi il più bel paesaggio
fan sembrare più corto il cammino
e magari sei l’unico a capirla
e la fai scendere senza seguirla
senza averle sfiorato la mano.
A celles qui sont déjà prises,
Et qui, vivant des heures grises
Près d’un être trop différent,
Vous ont, inutile folie,
Laissé voir la mélancolie
D’un avenir désespérant.
A quelle che sono già prese
e che vivendo delle ore deluse
con un uomo ormai troppo cambiato
ti hanno lasciato, inutile pazzia,
vedere il fondo della malinconia
di un avvenire disperato.
Chères images aperçues,
Espérances d’un jour déçues,
Vous serez dans l’oubli demain;
Pour peu que le bonheur survienne,
Il est rare qu’on se souvienne
Des épisodes du chemin.
Immagini care per qualche istante
sarete presto una folla distante
scavalcate da un ricordo più vicino
per poco che la felicità ritorni
è molto raro che ci si ricordi
degli episodi del cammino.
Mais si l’on a manqué sa vie
on songe avec un peu d’envie,
A tous ces bonheurs entrevus,
Aux coeurs qui doivent vous attendre,
Aux baisers qu’on n’osa pas prendre,
Aux yeux qu’on n’a jamais revus.
Ma se la vita smette di aiutarti
è più difficile dimenticarti
di quelle felicità intraviste
dei baci che non si è osato dare
delle occasioni lasciate ad aspettare
degli occhi mai più rivisti.
Alors, aux soirs de lassitude,
Tout en peuplant sa solitude
Des fantômes du souvenir,
On pleure les lêvres absentes
De toutes ces belles passantes
Que l’on n’a pas su retenir.
Allora nei momenti di solitudine
quando il rimpianto diventa abitudine,
una maniera di viversi insieme,
si piangono le labbra assenti
di tutte le belle passanti
che non siamo riusciti a trattenere.

(A. Pol – Traduzione di F. De Andrè)

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G. Brassens, Les passantes

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F. De Andrè, Le passanti

Dimensioni del dialogo

4 gennaio 2010 Lascia un commento

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Jan Švankmajer

Dimensions of Dialogue, Part II

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Il dio morente (..If sorrow had not made Sorrow more beautiful than Beauty’s self)

3 gennaio 2010 Lascia un commento

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In fondo a triste e ombrosa valle

lontano dal fresco fiato del mattino,

dal fiero meriggio, dalla stella del vespro,

era Saturno dai capelli grigi: un quieto sasso,

un silenzio immoto a cerchio del suo covo,

foresta su foresta sospese sul suo capo

come nube su nube. Né fruscio d’aria,

né vita quanta in un giorno estivo

ruba un lieve seme a piume d’erba,

ma dove cade la morta foglia resta.

Un rivo fluiva muto, ancora più cheto

perché la caduta divinità spandeva

ombra: la Naiade tra le canne

il freddo dito premeva sulle labbra.


Sulla renosa riva grandi orme correvano,

non oltre dove vagò il suo passo, e lì dormiva.

Su terra umida posava la vizza mano,

sfibrata, fiacca, morta, senza scettro;

e gli occhi spodestati chiusi;

mentre a capo chino forse Terra ascoltava,

l’antica madre, ancora per conforto.


Sembrava che nessuna forza l’avrebbe smosso,

ma venne colei che con mano sorella

toccò le ampie spalle, dopo un inchino

reverente a chi non s’avvedeva.

Era una Dea del mondo infante;

per statura a suo petto l’alta Amazzone

un pigmeo sarebbe: ghermire potrebbe

Achille per la chioma e piegargli il collo;

o con un dito fissare la ruota d’Issione.

Il volto largo come sfinge di Menfi,

sopra un piedistallo forse in corte regia,

quando i saggi all’Egitto chiedevano lume.

Ma oh! quanto diverso dal marmo era quel volto:

quanto bello se il dolore non avesse fatto

Dolore più bello di Bellezza stessa.

[…]

(J. Keats, Hyperion, I)

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Ricorda e combatti

1 dicembre 2009 Lascia un commento

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5 – E chiunque, al termine della sua vita, nel suo ultimo istante,

mentre abbandona il proprio corpo mortale e se ne va,

ricordi solo Me,

accede al mio stesso essere.

Di ciò non vi è dubbio.


6 – Qualunque stato dell’essere egli ricordi

quando alla fine abbandona il suo corpo,

a quello stato egli giunge,

venendo assunto in quella condizione.


7 – Pertanto ricordati di Me in ogni momento

e combatti, con la mente e il giudizio fissati su di Me.

È a Me che giungerai,

di ciò non vi è dubbio.

(Bhagavadgītā, VIII)

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Chimera

13 novembre 2009 Lascia un commento

C. Brancusi, Musa

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– La Chimera –

Non so se tra rocce il tuo pallido
Viso m’apparve, o sorriso
Di lontananze ignote
Fosti, la china eburnea
Fronte fulgente o giovine
Suora de la Gioconda:
O delle primavere
Spente, per i tuoi mitici pallori
O Regina O Regina adolescente:
Ma per il tuo ignoto poema
Di voluttà e di dolore
Musica fanciulla esangue,
Segnato di linea di sangue
Nel cerchio delle labbra sinuose
Regina de la melodia:
Ma per il vergine capo
Reclino, io poeta notturno
Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
Io per il tuo dolce mistero
Io per il tuo divenir taciturno.
Non so se la fiamma pallida
Fu dei capelli il vivente
Segno del suo pallore,
Non so se fu un dolce vapore,
Dolce sul mio dolore,
Sorriso di un volto notturno:
Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
E l’immobilità dei firmamenti
E i gonfii rivi che vanno piangenti
E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.

(D. Campana)

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Orfeo. Variazioni sul tema – II (Rilke)

10 novembre 2009 Lascia un commento

M. Chagall, Orpheus

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– Orfeo. Euridice. Ermete –

Era la prodigiosa miniera delle anime.
Come vene d’argento silenziose
scorrevano il suo buio. Tra radici
sgorgava il sangue che affluisce agli uomini
e greve come porfido appariva nel buio.
Di rosso altro non c’era.

Rupi c’erano,
selve incorporee e ponti sul vuoto
e quell’enorme, grigio, cieco stagno,
sospeso sopra il suo lontano fondo
come cielo piovoso su un paesaggio.
E in mezzo a prati miti di pazienza,
pallida striscia, un unico sentiero era visibile
come una lunga tela distesa ad imbiancare.

E per quest’unico sentiero essi venivano.

In testa l’uomo snello in manto azzurro,
guardando innanzi muto e impaziente
divorava la strada col suo passo
a grandi morsi senza masticarla. Gravi, chiuse,
dalle pieghe del suo manto pendevano le mani,
dimenticata ormai la lieve lira
ch’era incarnata nella sua sinistra
come tralci di rosa nel ramo dell’ulivo.
Ed i suoi sensi erano in due divisi:
mentre l’occhio in avanti correva come un cane,
tornava ed ogni volta nuovamente lontano
alla prossima svolta era ad attenderlo –
l’udito gli restava – come un odore – indietro.
Talora gli sembrava di percepire il passo
degli altri due viandanti che dovevano
seguirlo fino al colmo dell’ascesa.
Poi nient’altro che l’eco del suo ascendere
dietro di lui e il vento del suo manto.
E tuttavia venivano, si disse
a voce alta, e udì perdersi la voce.
Venivano, gli parve, ma con passo inudibile,
i due. Se per un attimo
gli fosse dato volgersi (se il volgersi a guardare
non fosse la rovina dell’intera sua opera
prima del compimento) li vedrebbe
i silenziosi due che lo seguivano:

il dio dei viandanti e del messaggio
lontano, sopra gli occhi chiari il pètaso,
lo snello caducèo proteso innanzi,
e alle caviglie il battito dell’ali;
e affidata alla sua sinistra: lei.

La Tanto-amata che un’unica lira
la pianse più che schiera di prèfiche nel tempo,
e dal lamento un mondo nuovo nacque
ove ancora una volta tutto c’era: selva, valle,
paesi, vie, e campi, e fiumi e belve;
e intorno a questo mondo del lamento
come intorno ad un’altra terra, un sole
ed un cielo stellato taciti si volgevano,
un cielo del lamento pieno di astri stravolti -:
Lei, la Tanto-amata.

Ma ella andava alla mano di quel dio,
e il passo le inceppavano le lunghe bende funebri,
incerta, mite e senza impazienza;
chiusa in sé come grembo che prepari una nascita,
senza un pensiero all’uomo innanzi a lei,
né alla via che alla vita risaliva.
Chiusa era in sé. E il suo essere morta
la riempiva come una pienezza.
Come d’oscurità e dolcezza un frutto,
era colma della sua grande morte,
così nuova che tutto le era incomprensibile.
Ella era in una verginità nuova
ed intangibile. Il suo sesso chiuso
come un giovane fiore sulla sera,
e le sue mani erano così immemori
di nozze che anche il dio che la guidava
col suo tocco infinitamente lieve,
come un contatto troppo familiare l’offendeva.

E non era più lei la bionda donna
che echeggiava talvolta nei canti del poeta,
isola profumata in mezzo all’ampio letto;
né più gli apparteneva.

Come una lunga chioma era già sciolta,
come pioggia caduta era diffusa,
come un raccolto in mille era divisa.

Ormai era radice.

E quando il dio bruscamente
fermatala, con voce di dolore,
esclamò: Si è voltato -,
lei non capì e in un soffio chiese: Chi?

Ma in lontananza – oscuro contro la soglia chiara –
qualcuno in volto non riconoscibile
immobile guardava
la striscia di sentiero in mezzo ai prati
dove il dio messaggero, l’occhio afflitto,
si voltava in silenzio seguendo la figura
che per la via di prima già tornava,
e il passo le inceppavano le lunghe bende funebri,
incerta, mite e senza impazienza.

(R. M. Rilke)

*

A. Rodin, Danaide

Infinita tenebra di luce

10 novembre 2009 1 commento

C. Brancusi, Uccello nello spazio

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Ch’io fossi allora – o sia: tu muovi sopra

di me, infinita tenebra di luce.

E il Sublime che nello spazio appresti, io irriconoscibile

sul mio volto che veglia lo accolgo.


Notte, sapessi come io ti guardo,

come il mio essere nella rincorsa arretra

per osare slanciarsi fino a te;

e come potrò credere che bastino due cigli a contenere

questi fiumi di sguardi che s’incalzano.

(R. M. Rilke)

*

Rembrandt, Hendrickje stoffels