Archivio

Posts Tagged ‘Bram van Velde’

Disiecta (Beckett e i Van Velde) – III

8 Maggio 2010 4 commenti

*

[…]

D. – Sarebbe troppo chiederle di delineare ancora una volta, nel modo più semplice possibile, la situazione e l’azione che lei ritiene proprie di [Bram] van Velde?

B. – La situazione è quella di chi è disorientato, non può agire, di fatto non può dipingere, essendo obbligato a dipingere. L’azione è quella di chi, disorientato, incapace di agire, agisce, di fatto dipinge, essendo obbligato a dipingere.

D. – Perché obbligato a dipingere?

B. – Non lo so.

D. – Perché è disorientato nel dipingere?

B. – Perché non c’è nulla da dipingere e nulla con cui dipingere.

D. – E il risultato, secondo lei, è un’arte di un nuovo genere?

B. – Tra quelli che chiamiamo grandi artisti non mi viene in mente nessuno il cui interesse non fosse principalmente rivolto alle proprie possibilità espressive, quelle del proprio mezzo, dell’umanità. Il presupposto implicito di ogni genere di pittura è che il regno dell’artefice è il regno del fattibile. Il molto da esprimere, il poco da esprimere, l’abilità di esprimere molto, l’abilità di esprimere poco, si fondono nella comune ansietà di esprimere il più possibile, o nel modo più veritiero possibile, o il meglio che sia possibile, al meglio delle proprie capacità. Che cosa…

D. – Un momento. Intende dire che la pittura di van Velde è inespressiva?

B. – (Due settimane dopo). Sì.

D. – Si rende conto dell’assurdità di ciò che sta dicendo?

B. – Spero di sì.

D. – Ciò che lei dice può essere riassunto così: la forma di espressione nota come pittura, dato che per oscure ragioni siamo obbligati a parlare di pittura, ha dovuto attendere van Velde per sbarazzarsi del malinteso in base al quale ha operato così a lungo e così mirabilmente, ovverosia che la sua funzione fosse di esprimere, per mezzo della pittura.

B. – Altri hanno ritenuto che l’arte non sia necessariamente espressione. Ma i numerosi tentativi fatti per rendere la pittura indipendente dalla sua occasione sono riusciti solo ad ampliare il suo repertorio. Io dico che van Velde è il primo la cui pittura sia orbata, priva se preferisce, di occasione in ogni forma e figura, tanto ideale quanto materiale, e il primo le cui mani non sono state immobilizzate dalla certezza che l’espressione è un atto impossibile.

[…]

B. – […] La storia della pittura, ed eccoci di nuovo al punto, è la storia dei suoi tentativi di sfuggire al suo senso del fallimento, mediante rapporti più autentici, più ampi, meno esclusivi, tra chi rappresenta e ciò che viene rappresentato, in una specie di tropismo verso una luce sulla cui natura le opinioni più mediate continuano a cambiare, e con una specie di terrore pitagorico, come se la razionalità del p greco fosse un’offesa contro la divinità, per non parlare della sua creatura. La mia tesi, dato che seggo sul banco degli imputati, è che van Velde è il primo a desistere da questo automatismo estetizzato, il primo a sottomettersi completamente alla incoercibile assenza di rapporto, in assenza dei termini o, se preferisce, in presenza di termini non disponibili, il primo a riconoscere che essere un artista significa fallire, come nessun altro osa fallire, che il fallimento è il suo mondo e ciò che gli impedisce di disertare, è arte e tecnica, la sua economia domestica, il suo modo di vivere.

No, no, mi conceda di finire.

So che ora per portare a una conclusione accettabile anche questa orribile storia, occorre fare di questa sottomissione, di questa fedeltà al fallimento, una nuova occasione, un nuovo termine di rapporto, e dell’atto che egli compie, incapace d’agire, obbligato ad agire, fare un atto espressivo, anche se espressivo solo dell’atto stesso, della sua impossibilità, del suo obbligo.

[…]

(S. Beckett, Disiecta)

*

Disiecta (Beckett e i Van Velde) – II

7 Maggio 2010 3 commenti

*

L’oggetto della rappresentazione resiste sempre alla rappresentazione […].

Il primo assalto fatto all’oggetto catturato, indipendentemente dalle sue qualità, nella sua indiffrerenza, inerzia, latenza, ecco una definizione della pittura moderna che forse non è più ridicola delle altre. […]

Il Cristo di Rouault, la natura morta più cinese di Matisse, un conglomerato di Kandinskij del 1943 o del 1944 sono nati dallo stesso sforzo, quello di esprimere in quale senso un clown, una mela e un quadrato rosso fanno parte di un’unità, e dello stesso smarrimento, di fronte alla resistenza che impedisce a questa unicità di essere espressa. Perché costituiscono un’unità in questo, che sono cose,la cosa, la cosità. Sembra assurdo parlare come faceva Kandinskij, di una pittura liberata dall’oggetto. La pittura si è liberata  dell’illusione che esista più di un oggetto di rappresentazione, forse anche dell’illusione che questo unico oggetto si lasci rappresentare.

[…] Perché che cosa resta di rappresentabile se l’essenza dell’oggetto consiste nel sottrarsi alla rappresentazione?

Restano da rappresentare le condizioni di questo sottrarsi […].

[…] È dipinto ciò che impedisce di dipingere.

[…]

Uno svelamento senza fine, velo dietro velo, piano su piano di trasparenze imperfette, uno svelamento verso ciò che non si svela, il nulla, di nuovo la cosa.

[…]

La pittura dei van Velde emerge, libera da ogni preoccupazione critica, da una pittura di critica e di rifiuto, rifiuto di accettare come dato il vecchio rapporto soggetto-oggetto.

[…]

A partire da questo momento restano tre vie che la pittura può imboccare. La via del ritorno alla vecchia ingenuità, attraverso l’inverno del suo abbandono, la via dei pentiti. Poi la via che non è più una via, bensì un ultimo tentativo di vivere nel paese conquistato. E infine la via in avanti di una pittura che si preoccupa poco sia di una convenzione superata sia delle ieraticità e dei preziosismi delle inchieste superflue, pittura d’accettazione, che intravede nell’assenza di rapporto e nell’assenza di oggetto, il nuovo rapporto e il nuovo oggetto, via che si biforca nelle opere di Bram e Geer van Velde.

(S. Beckett, Disiecta)

*

Disiecta (Beckett e i Van Velde) – I

7 Maggio 2010 4 commenti

*

Finito, nuovo di zecca, il quadro è là, un nonsenso. Perché non è ancora altro che un quadro, non vive ancora se non della vita delle linee e dei colori, non si è offerto se non al suo autore. Rendetevi conto della situazione. Aspetta che lo si faccia uscire di lì. Aspetta gli occhi, gli occhi che per secoli, perché è un quadro con un avvenire, lo caricheranno, lo anneriranno, con la sola vita che conta, quella dei bipedi implumi. Finirà per creparne. Poco importa. Lo si rattopperà. Lo si rabbercerà. […] Avrà vissuto, e sparso della gioia.

[…]

Che cosa significa saper disegnare? Che cosa importa che anche i bambini possano dipingere così? Facciano pure. Sarà meraviglioso.

[…]

Non c’è pittura. Ci sono solo i quadri. Questi, non essendo salsicce, non sono né buoni, né cattivi. Tutto ciò che se ne può dire è che traducono, con perdite maggiori o minori, impulsi assurdi e misteriosi verso l’immagine, che sono più o meno adeguati in rapporto a oscure tensioni interne. […] D’altronde è un coefficente privo di interesse. Perché perdite e profitti si equivalgono nell’economia dell’arte, dove quanto è taciuto è la luce di quanto è detto, e ogni presenza un’assenza. Tutto ciò che saprete di un quadro è quanto vi piace (e, a rigore, perché, se questo vi interessa). Ma anche questo probabilmente non lo saprete mai, a meno che diventiate sordi e dimentichiate i vostri studi.

[…]

La pittura di Bram van Velde sarebbe dunque, in primo luogo, una pittura della cosa in sospeso, direi volentieri della cosa morta, morta idealmente, se questo termine non comportasse delle associazioni incresciose. Vale a dire che la cosa che ci vediamo è non solo rappresentata come sospesa, bensì strettamente quale essa è, realmente rappresa. È la cosa sola, isolata dal bisogno di vederla. La cosa immobile nel vuoto, ecco infine la cosa visibile, il puro oggetto. Non ne vedo altri.

[…]

L’arte adora i salti.

[…] Che dire di questi piani che scivolano, questi contorni che vibrano, questi corpi che sembrano tagliati nella bruma, questi equilibri che un niente deve spezzare, che si spezzano e riformano man mano che li si guarda? Come parlare di questi colori che respirano, che ansimano? Di questa stasi brulicante? Di questo mondo senza peso, senza forza, senza ombra?

Qui tutto si muove, nuota, fugge, torna, si disfa, si rifà. Tutto cessa incessantemente. Si direbbe l’insurrezione delle molecole, l’interno di una pietra un millesimo di secondo prima che si disintegri.

La letteratura è proprio questo.

[…]

Forzare l’innata invisibilità delle cose esteriori finché questa stessa invisibilità diviene cosa, non semplice coscienza di limite, ma una cosa che si può vedere  e  far vedere, e farlo non nella testa (i pittori non hanno testa, leggete dunque al suo posto canovaccio, o stomaco, nei posti dove io li camuffo), bensì sulla tela, ecco un lavoro di una complessità diabolica e che richiede un mestiere di una flessibilità e di una leggerezza estreme, un mestiere che insinui più di quanto affermi, che sia positivo solo con l’evidenza fugace e accessoria del grande positivo, del solo positivo, del tempo che trasporta.

[…]

(S. Beckett, Disiecta)

*