Preghiera del Clown
Volto
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Ancora mi struggo per l’angoscia dei desideri,
Ancora l’anima mia ti desidera,
E nella tenebra dei ricordi
Ancora io rivedo il tuo volto…
Il tuo caro, indimenticabile volto,
Che è sempre, e ovunque, davanti a me
Così inafferrabile, così immutato,
Come una stella nel cielo notturno.
(F. I. Tjutčev)
*
Eppure questo non basta
*
È fuggita l’estate, più nulla rimane.
Si sta bene al sole,
eppure questo non basta.
Una foglia dalle cinque punte
mi si è posata su una mano,
eppure questo non basta.
Né il bene né il male sono passati invano,
tutto era chiaro e luminoso,
eppure questo non basta.
La vita mi prendeva sotto l’ala,
mi proteggeva, mi salvava: ero davvero fortunato,
eppure questo non basta.
Non sono bruciate le foglie, non si sono spezzati i rami,
il giorno è terso come il cristallo,
eppure questo non basta.
(Arsenij Tarkovskij)
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East Coker
*
Io dissi alla mia anima
Taci e lascia che scenda su di te la tenebra
Che sarà la tenebra di Dio.
Come in un teatro si spengono le luci
Per cambiare la scena con cupo rombo
D’ali con moto di tenebra
Su tenebra
E noi sappiamo che le colline e gli alberi
Il panorama lontano
E l’ardita facciata imponente
Tutto viene arrotolato via –
O come quando un treno sotterraneo
Nella metropolitana si ferma troppo a lungo
Tra due stazioni e la conversazione
Sorge per poi a poco a poco
Perdersi e svanire nel silenzio e vedi
Dietro ogni faccia spalancarsi
Il vuoto mentale lasciando soltanto
Terrore cosciente che non ci sia nulla
A cui pensare; o quando sotto l’etere
La mente è cosciente ma cosciente
Di nulla – Io dissi alla mia anima
Stai quieta e attendi senza speranza perché la speranza
Sarebbe speranza per le cose sbagliate; attendi
Senza amore perché l’amore
Sarebbe amore per le cose sbagliate; resta
La fede ma la fede e l’amore e la speranza
Sono tutti nell’attendere. Attendi
Senza pensiero, perché tu non sei pronto
Per pensare: così la tenebra
Sarà luce, e la quiete la danza.
(T. S. Eliot, Quattro quartetti, East Coker, III)
*
Non conclude..
*
[…] Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di jeri; del nome d’oggi, domani.
Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi;
e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita;
ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria,
sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace non ne parli più.
Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso.
Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita.
Quest’albero, respiro trèmulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola;
domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo.
L’ospizio sorge in campagna, in un luogo amenissimo.
Io esco ogni mattina, all’alba, perché ora voglio serbare lo spirito così, fresco d’alba,
con tutte le cose come appena si scoprono che sanno ancora del crudo della notte,
prima che il sole ne secchi il respiro umido e le abbagli.
Quelle nubi d’acqua là pese plumbee ammassate sui monti lividi, che fanno parere piú larga
e chiara nella grana d’ombra ancora notturna, quella verde plaga di cielo.
E qua questi fili d’erba, teneri d’acqua anch’essi, freschezza viva delle prode.
E quell’asinello rimasto al sereno tutta la notte, che ora guarda con occhi appannati e sbruffa
in questo silenzio che gli è tanto vicino e a mano a mano pare gli s’allontani cominciando,
ma senza stupore a schiarirglisi attorno, con la luce che dilaga appena
sulle campagne deserte e attonite. E queste carraie qua, tra siepi nere e muricce screpolate,
che su lo strazio dei loro solchi ancora stanno e non vanno. E l’aria è nuova.
E tutto, attimo per attimo, è com’è, che s’avviva per apparire.
Volto subito gli occhi per non vedere più nulla fermarsi nella sua apparenza e morire.
Così soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo.
Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare,
e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni.
La città è lontana. Me ne giunge, a volte, nella calma del vespro, il suono delle campane.
Ma ora quelle campane le odo non più dentro di me, ma fuori, per sé sonare,
che forse ne fremono di gioja nella loro cavità ronzante,
in un bel cielo azzurro pieno di sole caldo tra lo stridío
delle rondini o nel vento nuvoloso, pesanti e cosí alte sui campanili aerei.
Pensare alla morte, pregare.
C’è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane.
Io non l’ho piú questo bisogno,
perché muoio ogni attimo, io,
e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero,
non piú in me, ma in ogni cosa fuori.
(L. Pirandello, Uno, nessuno e centomila)
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