Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
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Verrà la morte e avrà i tuoi occhi –
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
(C. Pavese)
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Tutto sarà bene (And the fire and the rose are one)
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IV
La colomba che discende fende l’aria
con fiamma di terrore incandescente
le cui lingue dichiarano
la sola remissione da peccato e errore.
La sola speranza, o disperazione
è nella scelta di pira o pira –
per esser redenti da fuoco col fuoco.
Chi dunque escogitò il tormento? Amore.
Amore è l’estraneo Nome
dietro le mani che tesserono
l’intollerabile maglia di fuoco
che potere umano non può togliere.
Noi soltanto viviamo, soltanto sospiriamo
se consumati da fuoco e fuoco.
V
Ciò che chiamiamo principio è spesso la fine
e porre fine è dar principio.
La fine è là onde partimmo. E ogni frase
e sentenza che sia retta (dove ogni parola è a casa,
prendendo il suo posto a sorregger le altre,
la parola non diffidente né ostentata,
naturalmente partecipe del vecchio e del nuovo,
la comune parola esatta senza volgarità,
La formale parola precisa ma non pedante,
perfetta consorte unita in una danza)
ogni frase e ogni sentenza è una fine e un principio,
ogni poema un epitaffio. E qualunque azione
è un passo verso il patibolo, verso il fuoco, verso la gola del mare
o verso una pietra illegibile: è di lì che noi partiamo.
Noi moriamo con chi muore:
guarda, essi partono, e noi andiamo con loro.
Noi nasciamo con chi muore:
guarda, essi ritornano, e ci portano con loro.
Il momento della rosa e il momento del Tasso
hanno eguale durata. Un popolo senza storia
non è redento dal tempo, poiché la storia è una trama
di momenti senza tempo. Così, mentre la luce vien meno
in un pomeriggio d’inverno, in una cappella appartata
la storia è adesso e Inghilterra.
Con la forza di questo Amore e la voce di questa Chiamata
noi non cesseremo l’esplorazione
e la fine di tutto il nostro esplorare
sarà giungere là onde partimmo
e conoscere il luogo per la prima volta.
Attraverso l’ignoto, rammemorato cancello
quando l’ultima terra da conoscere
sia quella che era il principio;
alle sorgenti del fiume più lungo
la voce della cascata nascosta
e i bambini tra i rami del melo
non noti, poiché non attesi
ma uditi, uditi appena nel silenzio
tra due onde di mare. Su
presto, qui, ora, sempre –
Una condizione di completa semplicità
(che costa non meno di ogni cosa)
e tutto sarà bene e
ogni sorta di cose sarà bene,
quando le lingue di fiamma si incurvino
nel nodo incoronato di fuoco
e il fuoco e la rosa siano uno.
(T. S. Eliot, Four Quartets, Little Gidding)
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Sogno sul mare
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– Sogno sul mare –
E il mare e la tempesta agitavano la nostra barca;
Io, assonnato, mi abbandonavo al capriccio delle onde.
Due infiniti erano dentro di me,
giocavano con me a loro piacere.
Intorno a me come cembali risuonavano gli scogli,
si chiamavano i venti con grida, e cantavano le onde,
io giacevo stordito nel caos dei suoni,
ma sul caos dei suoni si innalzava il mio sogno.
Risplendente, morboso, incantato e muto,
leggero spirava sulla risonante tenebra.
Nell’ardore della febbre creava il suo mondo:
la terra verdeggiava, scintillava l’etere,
giardini-labirinti, palazzi, colonne,
e brulicava una folla di esseri silenziosi.
Riconobbi tanti volti a me sconosciuti,
vedevo creature di incanto, uccelli misteriosi,
sull’alto del creato camminavo come un dio,
e immobile sotto di me risplendeva il mondo,
ma attraverso tutti i sogni, come il grido di un mago,
mi arrivva il rimbombo dell’abisso marino,
e nella calma plaga delle visioni e dei sogni
irrompeva la schiuma delle onde ruggenti.
(F. I. Tjutčev)
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Il sogno della farfalla
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[…]
« Certi sognano banchetti, e al risveglio piangono; altri piangono in sonno, e all’alba partono per la caccia. Gli uni e gli altri nei loro sogni non sanno di sognare e a volte sognano di sognare. Soltanto al momento del risveglio sanno di aver sognato. E solo al grande risveglio sapremo che tutto non è stato che un sogno. La folla ignorante si crede desta quando distingue il principe da un pecoraio. Quale pregiudizio!
« Kong-zi e voi stesso, non siete che sogni. Io vi dico che sognate, e anche questo è un sogno. »
Queste parole sono straordinarie e paradossali. Nei secoli a venire un grande saggio le capirà, un giorno. Questo giorno verrà così rapidamente come la sera segue il mattino.
[…]
Una volta Zhuang Zhou sognò che era una farfalla svolazzante e soddisfatta della sua sorte e ignara di essere Zhuang Zhou. Bruscamente si risvegliò e si accorse con stupore di essere Zhuang Zhou. Non seppe più allora se era Zhou che sognava di essere una farfalla, o una farfalla che sognava di essere Zhou. Tra lui e la farfalla vi era una differenza. Questo è ciò che chiamano la metamorfosi degli esseri.
(Zhuang-zi [Chuang Tzu], II)
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Jan Švankmajer
Alice
Dimensioni del dialogo
Il funambolo
*
Verrà l’oblio su noi
Col passo liquido dell’essenza
Perché possa una volta ancora
Del primo stupore inebriarmi
E respirarti nuova.
Verrà l’oblio su noi
Per ritrovarci ancora.
È d’un momento, ecco
– Sistro tremendo –
L’incoscienza suprema
– Stridio di sogno su sogno –
Che vibra da sfondate midolla.
Ecco – questa notte
che s’innerva e s’inanella
Speculare.
Queste dita di conchiglia
Tese fino all’agonia
Verso il timpano del Nome.
Questo respiro di funamboli
Che s’inarca indecifrabile.
Questa promessa sconfinante
Resa all’infanzia di palpebre mareggianti.
Qui – la stessa di vite
Sfinite.
Ritrovata.
Nuova.
Nell’istante che
Abbandono
Per ritrovarci ancora.
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Il dio morente (..If sorrow had not made Sorrow more beautiful than Beauty’s self)
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In fondo a triste e ombrosa valle
lontano dal fresco fiato del mattino,
dal fiero meriggio, dalla stella del vespro,
era Saturno dai capelli grigi: un quieto sasso,
un silenzio immoto a cerchio del suo covo,
foresta su foresta sospese sul suo capo
come nube su nube. Né fruscio d’aria,
né vita quanta in un giorno estivo
ruba un lieve seme a piume d’erba,
ma dove cade la morta foglia resta.
Un rivo fluiva muto, ancora più cheto
perché la caduta divinità spandeva
ombra: la Naiade tra le canne
il freddo dito premeva sulle labbra.
Sulla renosa riva grandi orme correvano,
non oltre dove vagò il suo passo, e lì dormiva.
Su terra umida posava la vizza mano,
sfibrata, fiacca, morta, senza scettro;
e gli occhi spodestati chiusi;
mentre a capo chino forse Terra ascoltava,
l’antica madre, ancora per conforto.
Sembrava che nessuna forza l’avrebbe smosso,
ma venne colei che con mano sorella
toccò le ampie spalle, dopo un inchino
reverente a chi non s’avvedeva.
Era una Dea del mondo infante;
per statura a suo petto l’alta Amazzone
un pigmeo sarebbe: ghermire potrebbe
Achille per la chioma e piegargli il collo;
o con un dito fissare la ruota d’Issione.
Il volto largo come sfinge di Menfi,
sopra un piedistallo forse in corte regia,
quando i saggi all’Egitto chiedevano lume.
Ma oh! quanto diverso dal marmo era quel volto:
quanto bello se il dolore non avesse fatto
Dolore più bello di Bellezza stessa.
[…]
(J. Keats, Hyperion, I)
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