Nostalgia del presente – (Traum der Liebenden)
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Nostalgia del presente
E in quel preciso momento l’uomo si disse:
che cosa non darei per la gioia
di stare al tuo fianco in Islanda
sotto il gran giorno immobile
e condividere l’adesso
come si condivide la musica
o il sapore di un frutto.
In quel preciso momento
L’uomo stava accanto a lei
In Islanda
(J. L. Borges)
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East Coker
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Io dissi alla mia anima
Taci e lascia che scenda su di te la tenebra
Che sarà la tenebra di Dio.
Come in un teatro si spengono le luci
Per cambiare la scena con cupo rombo
D’ali con moto di tenebra
Su tenebra
E noi sappiamo che le colline e gli alberi
Il panorama lontano
E l’ardita facciata imponente
Tutto viene arrotolato via –
O come quando un treno sotterraneo
Nella metropolitana si ferma troppo a lungo
Tra due stazioni e la conversazione
Sorge per poi a poco a poco
Perdersi e svanire nel silenzio e vedi
Dietro ogni faccia spalancarsi
Il vuoto mentale lasciando soltanto
Terrore cosciente che non ci sia nulla
A cui pensare; o quando sotto l’etere
La mente è cosciente ma cosciente
Di nulla – Io dissi alla mia anima
Stai quieta e attendi senza speranza perché la speranza
Sarebbe speranza per le cose sbagliate; attendi
Senza amore perché l’amore
Sarebbe amore per le cose sbagliate; resta
La fede ma la fede e l’amore e la speranza
Sono tutti nell’attendere. Attendi
Senza pensiero, perché tu non sei pronto
Per pensare: così la tenebra
Sarà luce, e la quiete la danza.
(T. S. Eliot, Quattro quartetti, East Coker, III)
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L’oscuro fuoco del desiderio
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Amo i tuoi occhi, amica mia,
E il loro gioco d’incanto e di fuoco,
Quando, d’un tratto, tu li sollevi
E come un lampo nel cielo
Rapida intorno ti guardi…
Ma vi è un incanto ancor più intenso;
Quando nei tuoi occhi chini,
Nel momento del bacio appassionato,
Attraverso le tue ciglia abbassate
Arde il cupo fuoco del desiderio.
(F. I. Tjutčev)
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A sé stesso
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Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,
ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, né di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T’acqueta omai. Dispera
l’ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Omai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l’infinita vanità del tutto.
(G. Leopardi)
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Crepuscolo
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Io t’incontrai dove la notte
confina col giorno; dove la luce
suscita le tenebre in alba
e l’onde portano il bacio
dall’uno all’altro lido.
Dal cuore dell’azzurro impenetrabile
giunge un aureo appello,
e attraverso il crepuscolo di lagrime
io tento di fissarti,
e non son sicuro di vederti.
(R. Tagore)
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Un mondo di marionette
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…Puoi aiutarmi forse?
ma esiste un aiuto poi?
Vivrò ancora molto
…ma vivrò veramente?
Oppure il sogno come si è realizzato
era il mio unico fugace e breve momento di vita
di realtà veramente vissuta e conquistata…
…Con grande stupore io guardo indietro alla nostra vita
alla nostra realtà precedente
e dico a me stessa …abbiamo forse sognato?… Recitato?
…O cos’altro diavolo abbiamo fatto mai?..
È questa la vera realtà ed è insopportabile..
Io parlo, rispondo, rifletto, mi vesto, dormo e mangio
e un quotidiano costringimento,
un’esteriorità strana e insensibile..
Ma dietro questa maschera io piango continuamente..
Piango continuamente per me stessa per non poter
essere mai più come prima..
Ciò che è stato non tornerà mai più è finito per sempre
distrutto come un sogno..
(I. Bergman, Un mondo di marionette)
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Hymne à la Beauté
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Tu vieni dal profondo cielo o sorgi
dall’abisso, o Beltà? Versa il tuo sguardo
infernale o divino, mescolati,
il beneficio e il crimine, e per questo
al vino ti potrei rassomigliare.
Hai nell’occhio l’aurora ed il tramonto;
come una sera tempestosa spandi
profumi; ed i tuoi baci sono un filtro,
e la tua bocca un’anfora, che fanno
coraggioso il fanciullo, l’eroe vile.
Sorgi dal nero abisso oppure scendi
Dalle stelle? Il Demonio, affascinato,
come un cane è attaccato alle tue gonne;
spargi a caso la gioia ed i disastri,
e tutto reggi, e di nulla rispondi.
Sopra i morti, o Beltà, di cui ti ridi,
cammini. Non è il meno affascinante,
l’Orrore, tra le tue gioie; amoroso
sopra il tuo ventre orgoglioso danza
l’Omicidio, fra i ciondoli il più caro.
Vola abbagliato verso te l’effimera,
o candela, fiammeggia stride e dice:
“benediciamo questa torcia!” Anela
l’innamorato chino sulla bella,
e ha l’aria d’un morente che accarezza
la sua tomba. O Beltà, cha cosa importa,
o mostro spaventoso enorme ingenuo,
che tu venga dal cielo o dall’inferno,
se mi schiude la porta il tuo sorriso
ed il tuo piede e l’occhio a un Infinito
adorato ed ancora sconosciuto?
Di Satana o di Dio, che importa? Angelo
o Sirena, che importa se mi rendi,
– fata dagli occhi di velluto, ritmo,
profumo, luce, unica regina! –
questo universo meno ripugnante
e questi brevi istanti meno gravi?
(C. Baudelaire)
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La luna
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La sera era solitaria per me,
ed io me ne stavo a leggere un libro,
finché il cuore mi divenne arido,
e mi parve che la bellezza fosse cosa
confezionata dai mercanti di parole.
Stanco chiusi il libro e spensi la candela.
In un istante la camera si riempì
del chiaror della luna.
Spirito di bellezza, come potevi tu,
che inondi di splendore il cielo,
startene nascosto dietro
una piccola fiammella di candela?
E come le poche parole vane
d’un libro potevano sollevare un nembo
a velar quella parola che ha colmato
d’ineffabile pace il cuor della terra?
(R. Tagore)
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Dove brucia una fiamma verde
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Anima mia
chiudi gli occhi
piano piano
e come s’affonda nell’acqua
immergiti nel sonno
nuda e vestita di bianco
il più bello dei sogni
ti accoglierà
anima mia
chiudi gli occhi
piano piano
abbandonati come nell’arco delle mie braccia
nel tuo sonno non dimenticarmi
chiudi gli occhi pian piano
i tuoi occhi marroni
dove brucia una fiamma verde
anima mia.
(N. Hikmet)
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Visione
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Ricordo l’istante incantato:
Davanti m’eri apparsa tu,
Come fuggevole visione,
Come genio di pura bellezza.
Nei disperati miei tormenti,
Nel chiasso delle vanità,
Tenera udivo la tua voce,
Sognavo i cari lineamenti.
Anni trascorsero. Bufere
Gli antichi sogni poi travolsero,
Dimenticai la tua tenera voce,
I tuoi celesti lineamenti
E in silenzio passavo i giorni
Recluso nel vuoto grigiore,
Senza più fede e ispirazione,
Senza lacrime, né vita né amore.
All’anima fu dato risveglio:
E ancora mi sei apparsa tu,
Come fuggevole visione,
Come genio di pura bellezza.
E nell’ebbrezza batte il cuore
E tutto in me risorge già –
E la fede e l’ispirazione
E la vita e le lacrime e l’amore.
(A. Puškin)
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Non conclude..
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[…] Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di jeri; del nome d’oggi, domani.
Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi;
e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita;
ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria,
sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace non ne parli più.
Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso.
Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita.
Quest’albero, respiro trèmulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola;
domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo.
L’ospizio sorge in campagna, in un luogo amenissimo.
Io esco ogni mattina, all’alba, perché ora voglio serbare lo spirito così, fresco d’alba,
con tutte le cose come appena si scoprono che sanno ancora del crudo della notte,
prima che il sole ne secchi il respiro umido e le abbagli.
Quelle nubi d’acqua là pese plumbee ammassate sui monti lividi, che fanno parere piú larga
e chiara nella grana d’ombra ancora notturna, quella verde plaga di cielo.
E qua questi fili d’erba, teneri d’acqua anch’essi, freschezza viva delle prode.
E quell’asinello rimasto al sereno tutta la notte, che ora guarda con occhi appannati e sbruffa
in questo silenzio che gli è tanto vicino e a mano a mano pare gli s’allontani cominciando,
ma senza stupore a schiarirglisi attorno, con la luce che dilaga appena
sulle campagne deserte e attonite. E queste carraie qua, tra siepi nere e muricce screpolate,
che su lo strazio dei loro solchi ancora stanno e non vanno. E l’aria è nuova.
E tutto, attimo per attimo, è com’è, che s’avviva per apparire.
Volto subito gli occhi per non vedere più nulla fermarsi nella sua apparenza e morire.
Così soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo.
Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare,
e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni.
La città è lontana. Me ne giunge, a volte, nella calma del vespro, il suono delle campane.
Ma ora quelle campane le odo non più dentro di me, ma fuori, per sé sonare,
che forse ne fremono di gioja nella loro cavità ronzante,
in un bel cielo azzurro pieno di sole caldo tra lo stridío
delle rondini o nel vento nuvoloso, pesanti e cosí alte sui campanili aerei.
Pensare alla morte, pregare.
C’è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane.
Io non l’ho piú questo bisogno,
perché muoio ogni attimo, io,
e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero,
non piú in me, ma in ogni cosa fuori.
(L. Pirandello, Uno, nessuno e centomila)
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